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Il gruppo, i cui componenti vivono e lavorano tra Milano e Bergamo, si forma alla metà degli anni Novanta. Le sue caratteristiche sono la fluidità e la coralità: esso è infatti aperto nella sua composizione e si avvale di collaborazioni, anche di breve periodo, che attingono alle diverse discipline dell’arte o ad ambiti affini e paralleli, come la musica, la poesia, l’antropologia, l’informatica. Sin dagli esordi la ricerca dei Ferrariofréres è orientata all’indagine dei rapporti tra natura e cultura, tra linguaggio e tecnica, tra Kultur e Civilisation, in un contesto espressivo e formale che vede privilegiati il mezzo fotografico e la videoinstallazione. Le loro opere, spesso riferite al mondo naturale, alla botanica come alla zoologia, intrecciano realtà e finzione, mito e allegoria, teatro e racconto, suggerendo percorsi e riflessioni sul valore “residuale” e ideologico delle immagini nella società contemporanea. Dunque, essenzialmente, una poetica del “guardare” una fenomenologia dell’occhio che scruta e analizza i meccanismi “culturali” e sociali della visione per smascherare le
ambiguità e le contraddizioni. Di qui l’opzione e la predilezione dei Ferrariofréres per la fotografia “a contatto”, che della fotografia convenzionale (moltiplicabile, incorporea, elegiaca) è il rovescio paradossale e incongruo, configurandosi come “impronta-assenza” originale dell’oggetto, del suo corpo unico e vero. Impronte fotografiche (impronte di impronte), costellazioni di immagini-luce che evocano il referente nelle forme fantastiche di reliquie o ectoplasmi di realtà modulate dalla argentea opacità della luce.
La tecnica, basata sul contatto diretto tra l’oggetto (animale, fiore, insetto etc.) e il materiale sensibile all’alogenuro d’argento, è quella del fotogramma caro alla tradizione delle avanguardie storiche (Man Ray, Moholy Nagy) le cui originarie finalità espressive in chiave formalistico-astratta sono piegate dai Ferrariofréres a un più elementare e realistico valore di testimonianza visiva: “nient’altro che un arrendersi all’evidenza delle cose”. L’icona del gruppo è un autoritratto dei fondatori, tre persone di cui una ormai è definitivamente assente.
Enrico De Pascale

“Lo spunto originario del nostro lavoro è nella fotografia e nei suoi derivati; la luce viene considerata nella sua capacità di rimodulare lo spazio da cui l’immagine emerge, trasformando l’occhio fotografico in una sorta di antidoto all’eccesso di soggettività dell’uomo moderno. Un antidoto scientifico-materialistico, che è per natura condivisibile da più individui. La fotografia nasce dall’ordine della razionalità per testimoniare dell’apparenza fenomenica. Ma essa finisce per gettare luce su una realtà cui l’uomo è estraneo. Essa esiste solo come alibi per esorcizzare la paura nei confronti dei suoi esiti.”

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